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2009-02-05 06:47:51 UTC
Di PIO D'EMILIA su IL MANIFESTO del 4/2/2009
Giappone, cronache della crisi dalla capitale siderurgica ed elettronica del
paese. Dove la disoccupazione colpisce duro, giapponesi di ogni fascia di
età e lavoratori temporanei più deboli. Storie di ordinaria distruzione di
vite, con il peggio che avanza
Stazione di Hamamatsu, 150 chilometri da Tokyo, un sabato sera. Centinaia di
barboni stanno sistemando, ordinatamente, come ogni sera, gli scatoloni dove
sono costretti a passare la notte. In Giappone è vietato dormire
all'addiaccio e persino in macchina, nei parcheggi. Si rischia l'arresto,
per vagabondaggio. Ma a nessun poliziotto, di questi tempi, salta in testa
di far applicare la legge.
Gli scatoloni aumentano giorno dopo giorno, e cominciano ad arrivare anche
le nuove generazioni. Non più vecchietti senza speranza, ma uomini e donne
di mezza età, persino qualche ventenne.
Lentamente, alle nove in punto, i vecchi e nuovi «avanzi» dell'ultimo Impero
si incamminano verso una specie di piazzola dove di giorno la gente si
raduna per fumare. Già, perché ad Hamamatsu l'amministrazione municipale,
che non riesce a trovare un tetto e un'occupazione a migliaia di poveracci
espulsi dal circolo produttivo, ha vietato di fumare all'aperto.
Qui invece tutti, ma proprio tutti, fumano, ciascuno con il proprio
portacenere personale, nessuno butta per terra una cicca. Barboni,
derelitti, ma pur sempre giapponesi, educati e gentili. A chi, come noi,
arriva qui per fotografarli, riprenderli, intervistarli rispondono con
gentilezza e disponibilità: chiedono solo di non riprenderli di faccia, a
meno che non si tratti di media stranieri. Molti hanno una famiglia, una
moglie, dei figli. Che magari non sanno la fine che hanno fatto. Magari
pensano che si siano suicidati, una soluzione molto diffusa (35 mila l'anno,
uno ogni 15 minuti) e più che dignitosa, socialmente, oltre che redditizia.
Le assicurazioni pagano anche in caso di suicidio e, con una buona polizza,
se ti suicidi almeno consenti alla tua famiglia di vivere dignitosamente. Se
resti in vita, vivi nel degrado. Qualcuno di questi magari ci sta pensando,
altri si accontentano di fare johatsu, «evaporare». Lo fanno in altri
trentamila, ogni anno. Se le cose si mettono male, spariscono, cambiano
nome.
In Giappone non esistono documenti di indentità obbligatori: basta stampare
un bigliettino da visita e comportarsi bene, e nessuno ti chiede, stato di
nascita, codice fiscale, precedenti penali. Il lavoro lo trovi. O meglio, lo
trovavi. «Lavoravo di giorno in fabbrica, di notte in un combini (piccoli
supermarket aperti 24 su 24 n.d.r.) - ci racconta Yoshiaki, 35 anni, uno dei
più giovani - avevo un ragazza e dividevamo un appartamento. Poi le cose
sono precipitate. Prima ho perso il lavoro in fabbrica, poi anche quello
serale. La mia ragazza si è trovata un altro e mi ha sbattuto fuori casa. A
casa non posso e non voglio tornarci. Per ora sono qui, ma spero di
ritrovare lavoro presto ed andarmene». Nel frattempo, Yoshiaki si mette in
fila come tutti gli altri, ordinati e silenziosi, ciascuno avvolto nella sua
disperata solitudine, in attesa del pasto caldo.
Ad organizzare la distribuzione è don Evaristo Higa, un salesiano con gli
occhi a mandorla, ma di nazionalità brasiliana. Ad aiutarlo, in una società
che non riconosce la solidarietà come virtù e la sconfitta come diritto, non
sono dei giapponesi, ma altri brasiliani. Disoccupati, magari, ma pronti a
dare una mano. E' il primo paradosso, che ti colpisce, arrivato qui. I
poveracci del terzo mondo che portano cibo e conforto ai «colleghi» del
primo. Una lezione che lascia di stucco. «Una lezione che sta dando i suoi
frutti - spiega don Higa - adesso cominciano a venire anche i giapponesi, a
dare una mano. Uno mi ha detto: sa padre, finalmente mi sento utile, ho
capito che cos'è la solidarietà. Prima pensavo si trattasse di aiutare i
bambini ad attraversare la strada, o tenere puliti i marciapiedi....».
Giappone, cronache della crisi dalla capitale siderurgica ed elettronica del
paese. Dove la disoccupazione colpisce duro, giapponesi di ogni fascia di
età e lavoratori temporanei più deboli. Storie di ordinaria distruzione di
vite, con il peggio che avanza
Stazione di Hamamatsu, 150 chilometri da Tokyo, un sabato sera. Centinaia di
barboni stanno sistemando, ordinatamente, come ogni sera, gli scatoloni dove
sono costretti a passare la notte. In Giappone è vietato dormire
all'addiaccio e persino in macchina, nei parcheggi. Si rischia l'arresto,
per vagabondaggio. Ma a nessun poliziotto, di questi tempi, salta in testa
di far applicare la legge.
Gli scatoloni aumentano giorno dopo giorno, e cominciano ad arrivare anche
le nuove generazioni. Non più vecchietti senza speranza, ma uomini e donne
di mezza età, persino qualche ventenne.
Lentamente, alle nove in punto, i vecchi e nuovi «avanzi» dell'ultimo Impero
si incamminano verso una specie di piazzola dove di giorno la gente si
raduna per fumare. Già, perché ad Hamamatsu l'amministrazione municipale,
che non riesce a trovare un tetto e un'occupazione a migliaia di poveracci
espulsi dal circolo produttivo, ha vietato di fumare all'aperto.
Qui invece tutti, ma proprio tutti, fumano, ciascuno con il proprio
portacenere personale, nessuno butta per terra una cicca. Barboni,
derelitti, ma pur sempre giapponesi, educati e gentili. A chi, come noi,
arriva qui per fotografarli, riprenderli, intervistarli rispondono con
gentilezza e disponibilità: chiedono solo di non riprenderli di faccia, a
meno che non si tratti di media stranieri. Molti hanno una famiglia, una
moglie, dei figli. Che magari non sanno la fine che hanno fatto. Magari
pensano che si siano suicidati, una soluzione molto diffusa (35 mila l'anno,
uno ogni 15 minuti) e più che dignitosa, socialmente, oltre che redditizia.
Le assicurazioni pagano anche in caso di suicidio e, con una buona polizza,
se ti suicidi almeno consenti alla tua famiglia di vivere dignitosamente. Se
resti in vita, vivi nel degrado. Qualcuno di questi magari ci sta pensando,
altri si accontentano di fare johatsu, «evaporare». Lo fanno in altri
trentamila, ogni anno. Se le cose si mettono male, spariscono, cambiano
nome.
In Giappone non esistono documenti di indentità obbligatori: basta stampare
un bigliettino da visita e comportarsi bene, e nessuno ti chiede, stato di
nascita, codice fiscale, precedenti penali. Il lavoro lo trovi. O meglio, lo
trovavi. «Lavoravo di giorno in fabbrica, di notte in un combini (piccoli
supermarket aperti 24 su 24 n.d.r.) - ci racconta Yoshiaki, 35 anni, uno dei
più giovani - avevo un ragazza e dividevamo un appartamento. Poi le cose
sono precipitate. Prima ho perso il lavoro in fabbrica, poi anche quello
serale. La mia ragazza si è trovata un altro e mi ha sbattuto fuori casa. A
casa non posso e non voglio tornarci. Per ora sono qui, ma spero di
ritrovare lavoro presto ed andarmene». Nel frattempo, Yoshiaki si mette in
fila come tutti gli altri, ordinati e silenziosi, ciascuno avvolto nella sua
disperata solitudine, in attesa del pasto caldo.
Ad organizzare la distribuzione è don Evaristo Higa, un salesiano con gli
occhi a mandorla, ma di nazionalità brasiliana. Ad aiutarlo, in una società
che non riconosce la solidarietà come virtù e la sconfitta come diritto, non
sono dei giapponesi, ma altri brasiliani. Disoccupati, magari, ma pronti a
dare una mano. E' il primo paradosso, che ti colpisce, arrivato qui. I
poveracci del terzo mondo che portano cibo e conforto ai «colleghi» del
primo. Una lezione che lascia di stucco. «Una lezione che sta dando i suoi
frutti - spiega don Higa - adesso cominciano a venire anche i giapponesi, a
dare una mano. Uno mi ha detto: sa padre, finalmente mi sento utile, ho
capito che cos'è la solidarietà. Prima pensavo si trattasse di aiutare i
bambini ad attraversare la strada, o tenere puliti i marciapiedi....».