ROB (Senza Numero)
2008-11-22 06:58:32 UTC
PRECARIATO E SUICIDI, LA CRISI INVESTE TOKYO
Tra tubi e rubinetti guasti, la giornata tipo di un pronto-intervento nella
capitale giapponese. Che fatica ad arrivare a fine mese e immagina un futuro
denso di nubi. Due lavori, quindici ore di duro lavoro al giorno e un
guadagno totale netto di 2500 euro, appena sufficienti in una delle città
più care del mondo. Lo specchio di un ceto medio che si avvicina alla soglia
di povertà
di Pio d'Emilia su IL MANIFESTO del 21 Novembre da TOKYO
L'occasione è ghiotta. Mentre il mondo ha ormai dimenticato il presunto
idraulico Joe che ha imperversato per buona parte della campagna elettorale
americana, io ho davanti a me un suo collega giapponese. Pura coincidenza. È
un anno e più che il rubinetto del lavello di casa non funziona: acqua calda
a volontà, ma solo un filo di acqua fredda. Risultato: o rischi
l'ustionamento, o i piatti si accumulano.
Direte, un anno per trovare un idraulico? Nossignori. Semplicemente non
l'avevo mai chiamato.
Qualche giorno fa, dopo l'ennesima ustionatura, mi sono deciso. È bastata
una telefonata all'agenzia che mi ha trovato a suo tempo la casa e nel giro
di poche ore è arrivato Manabu, assieme a due colleghi/apprendisti. Inviato
dal Suido Kyukyusha, il centro emergenza idraulica. Un colosso. 3000
richieste di intervento al giorno, tutte evase nel giro di poche ore da un
esercito di precari che attendono a casa o nei rispettivi luoghi di lavoro
una chiamata.
Ma l'azienda, che formalmente è una cooperativa, ha appena 10 dipendenti,
tutti impiegati al centralino. Miracoli della precarizzazione. Cinque mila
yen (40 euro circa) di diritto di chiamata fisso, due mila yen (15 euro)
l'ora, più materiali. Più che ragionevole, visto che siamo a Tokyo. Il
servizio è impeccabile e il bello è che arrivano in due o tre, ma paghi solo
per uno. Buono per il cliente, un po' meno per i lavoratori. Ai quali un po'
meno del 50% del totale fatturato (esclusi i materiali), sul quale devono
anche pagarci le tasse. Ma andiamo con ordine.
Manabu, dopo lo scambio inevitabile dei convenevoli, inchini vari e scambio
di bigliettini da visita sull'uscio, si toglie le scarpe e si mette subito
al lavoro. Ci mette poco a capire che il rubinetto è rotto e non ha nessuna
intenzione, non si usa più, di perdere tempo a smontarlo e ripararlo. E dopo
una breve telefonata alla ditta (dal suo cellulare) per comunicare la
diagnosi manda uno degli apprendisti a prenderne uno nuovo. Il tutto
producendosì in mille scuse per il ritardo, per il fatto di non aver pensato
di portare direttamente un rubinetto nuovo (ma come faceva, nessuno gli
aveva comunicato il modello) e assicurando che non avrebbe messo in conto
l'attesa. E fa per andarsene. Si tratta di aspettare un'oretta e fosse per
lui sarebbe capace di aspettare in piedi, fuori dalla porta, fino all'arrivo
del rubinetto nuovo. Provo a trattenerlo, e sfruttare l'occasione per
decifrare l'affascinante mondo dei tubi e degli impianti sanitari del
Giappone e soprattutto per capire come se la passa, in questo momento
particolarmente drammatico per la seconda economia mondiale.
Alla fine, dopo aver rifiutato nell'ordine birra, vino e persino un tè cede
al fascino dell'espresso, che in Giappone oramai è diventato molto popolare.
Assieme ad altre parole come pizza, cappuccino, balsamico, mozzarella e...
precariato. Già, precariato. Da quando una scrittrice no-global, Karin
Amanomiya l'ha usata in uno dei suoi romanzi di maggior successo
(Ikisaseroo, «lasciateci vivere») e da quando il virtual book italiano
«Generazione mille euro» è diventato un best seller nell'arcipelago
provocando l'invidia dei giovani giapponesi (dove molti «precari» a tempo
pieno guadagnano molto meno di 1000 euro al mese) è diventata una parola
entrata nell'uso quotidiano, come un tempo lo fu la parola proletariato. A
casa ho appunto l'edizione giapponese di «generazione mille euro». Lo metto
provocatoriamente in mostra sul tavolo della cucina e mentre Manabu ed il
suo collega, che resterà muto per tutto il tempo, in segno di deferenza per
il «capo», sorseggiano (in piedi) il caffè, la butto lì. «Beati voi che
avete un lavoro fisso. Oggi è un problema anche in Giappone, con tutti
questi precari, questi poveri che lavorano, e che non arrivano alla fine del
mese». Il sorriso di Manabu dura un attimo. «Beati noi? Tu non hai idea di
come sia dura tirare avanti. E anche io faccio parte di quella categoria che
hai appena menzionato. Precario. Precario a tempo pieno».
Il ghiaccio è rotto. Manabu si siede, subito seguito da Haruo, il suo
silenzioso e forse un po' intimorito collega, e iniziamo una bella
chiacchierata. Manabu ha 51 anni, suo padre, suo nonno e forse anche il
bisnonno erano del mestiere. Erano originari del Tohoku, una regione rurale
a nordovest di Tokyo. «Ricordo con nostalgia la mia infanzia. Vivevamo in
una grande casa, era appena finita la guerra e c'era poco da mangiare. Le
donne coltivavano l'orto e andavano a cercare bacche e verdure selvatiche
nel bosco, gli uomini lavoravano. Appena tornato da scuola seguivo sempre
mio padre, che veniva chiamato dappertutto. Eravamo poveri ma rispettati.
Mio padre era un'autorità nel villaggio».
Beh, anche da noi, in Italia, gli idraulici sono un'autorità - provo a
sdrammatizzare - sono pochi e si fanno pagare. «Dico sul serio - insiste
Manabu, che non ha nessuna voglia di scherzare e comincia e prenderci
gusto - mio nonno, più che un idraulico, era una specie di ingegnere
autodidatta, cominciò a costruire le fogne da prima della guerra, quando non
c'erano nemmeno nelle grandi città. Ricordo che mi raccontava come veniva
osteggiato dai ricconi, preoccupati di perdere una fonte di reddito». Quale?
«Quella per il letame ricavato dalle feci umane. In Giappone i campi si
concimavano, e succede ancora in certe zone rurali, con letame umano. E
quello dei ricchi ovviamente valeva di più, visto che avevano una dieta
migliore Ma con le fogne, questo privilegio è sparito» Però ne restano
tanti, vero, di privilegi? Il divario tra ricchi e poveri sembra essersi
allargato a dismisura negli ultimi anni, dov'è finita la classe media?
«Eccola qui la classe media. Secondo le statistiche, io rappresento la
classe media. Ho un lavoro, anzi due perché questo che faccio per te oggi è
per il Suido Kyukyusha, la cooperativa che gestisce l'emergenza idraulica,
in realtà io lavoro a tempo pieno per la Toto, la più grande azienda di
sanitari del Giappone e forse del mondo. Faccio l'installatore, ho un
contratto a tempo determinato che mi viene rinnovato da 13 anni, un mutuo
iniziato da mio padre e che per fortuna ho quasi finito di pagare, una
moglie che anche lei fa qualche lavoretto e due figli che vanno a scuola
senza problemi. Ce la caviamo, ma lavorando come cani e senza concederci
nulla. E vivo nel terrore di crollare per terra, un giorno, e lasciare la
mia famiglia da sola. Non sopravviverebbero. È un fenomeno molto diffuso in
Giappone, lo sai? Si chiama karoshi».
Lo so. Lo sappiamo. E gli spiego che se cappuccino e precariato sono entrati
nel linguaggio comune giapponese, in Italia anche karoshi (morte da
superlavoro) dopo sushi, kamikaze e harakiri, sono parole conosciute. E gli
chiedo cosa ne pensa dell'aumento vertiginoso dei suicidi (34 mila l'anno,
uno ogni 14 minuti).
Molti giapponesi che non ce la fanno più, che hanno perso il lavoro o
semplicemente sono esausti dall'inutile maratona che sono stati costretti a
correre dal dopoguerra in poi, stipulano un'assicurazione e poi si
suicidano. Sembra un sistema diffuso e tutto sommato accettato dalla
società. Spesso è l'unico modo per garantire alla famiglia un'esistenza
decente. Almeno fino a quando le compagnie assicurative continuano a pagare
anche in caso di suicidio. «È vero, ma ti sembra bello? Uno lavora come uno
schiavo per anni e poi, invece di potersi godere la vecchiaia, deve
attaccarsi a un tubo di scarico per garantire la sopravvivenza ai figli? È
inaccettabile! Io con i tubi ci vivo. Non mi arrenderò mai.Spero solo che il
corpo resista».
Perché sei venuto a Tokyo, perché avete abbandonato la campagna? «Perché mio
padre era diventato davvero bravo e voleva ingrandirsi. È venuto prima lui a
Tokyo, ha fondato una ditta, cominciato ad ottenere i primi appalti,
inchinandosi di qua e smazzettando di là. Poi dopo qualche anno in cui
praticamente lo vedevamo una o due volte, ci ha chiamato. Era felice e
orgoglioso. Però ricordo che eravamo tristi, io e mia sorella. E anche mia
madre. Che infatti non ha resistito, si è presa una brutta malattia ed è
morta. E le cose sono precipitate. Mia sorella era ancora alla scuola
superiore, io avevo appena superato l'esame di ammissione all'università ma
decisi di lasciar perdere per lavorare con mio padre. Ma le cose non
andarono bene, eravamo in piena bolla. Un paio di clienti grossi non
pagarono le fatture e mio padre fu costretto a chiudere.
Ma era bravo e soprattutto umile. Riuscì a farsi assumere dalla Toto, dove
ora lavoro anche io». Quella del famoso washlet, la Ferrari della toilette?
«Proprio così. Una rivoluzione. Oltre metà dei giapponesi, nelle grandi
città, ne possiede uno. Per noi giapponesi l'igiene personale è molto
importante. La toilette è uno dei pochi posti dove ci sentiamo davvero
tranquilli, in una sorta di inviolabile intimità. La gente spende più soldi
per rinnovare la toilette che la cucina». Già. Una bella rivoluzione, dalle
latrine a cielo aperto (tutt'ora presenti in zone rurali), e le alghe e i
bastoncini di bambù che i giapponesi usavano fino agli inizi del secolo
scorso, prima di passare alla carta igienica alla cybertavolette riscaldate,
con spruzzi vari regolabili e persino musichette rilassanti.
Toglimi una curiosità, Manabu-san, ma da dove nasce l'idea di otohime, «la
principessa del suono», la melodia che riproduce il mormorio delle onde?
Manabu si fa una bella risata e spiega: «In Giappone nessuno si meraviglia
se l'uomo emette dei rumori naturali, compresi rutti e flatulenze, sia in
pubblico che in privato. Ma per le donne è diverso. Per loro è estremamente
disdicevole emettere suoni e dunque, quando sono alla toilette, fanno
continuamente scorrere l'acqua per coprire ogni rumore. Di qui l'idea di
produrre una tazza con una musica incorporata che ricorda il suono della
sciacquone, più che il mormorio delle onde, e di chiamarla Otohime, dal nome
dell'omonima principessa, figlia del dio del mare Ryujin. Un successone, ne
avrò installate a migliaia. E ora ci sono i nuovi modelli, ancora più
sofisticati». Tipo? «Il modello Well-You II. Oltre a tutto il resto,
raccoglie ed esamina le urine, misura la pressione. Può essere collegato
wireless al computer di casa e/o a quello dell'ospedale dove sei seguito e
comunica in diretta i tuoi dati al medico. Una manosanta per diabetici e
affetti da altre malattie croniche. Era partito bene, ma costa molto, e ora
stiamo subendo molte cancellazioni e pochissimi nuovi ordini. Con questa
crisi».
Già, torniamo alla crisi. Dicevi che in pratica fai due lavori. Quanto
guadagni, al mese? «Al netto delle tasse, che pago integralmente perché
tutti i lavori che faccio sono tassati alla fonte, al 10%, circa 300 mila
yen al mese (2500 euro circa). Per stare in giro tra tubi, piastrelle e
sanitari anche 15 ore ogni giorno. Mia moglie lavora da casa per un call
center, e porta a casa altri 100 mila yen (700 euro). Per modo di dire
perché se li tiene tutti lei..Dice di metterli da parte per l'emergenza. Ma
ci siamo, nell'emergenza». È vero che molti giapponesi non si fidano delle
banche e tengono i soldi, in contanti, in casa? Una pacchia per i ladri. «È
vero, abbiamo questa vecchia tradizione. Si chiama tansu chokin ("i risparmi
nel comò", n.d.r.) ma in realtà ognuno scegli posti diversi, sotto i tatami,
in uno scomparto segreto del frigorifero, persino nello sciacquone, in una
busta impermeabile. Comunque è una cosa di cui si occupano le donne. E io
non ho davvero idea di dove li metta, mia moglie, i soldi. Altrimenti li
avrei già rubati». Ride di gusto, Manabu. E dopo il caffè accetta un
bicchiere di vino, previo giuramento che non rivelerò mai questa sua
debolezza. Bere sul lavoro, e più in generale prima delle 6 di sera, in
Giappone, è considerato quasi un reato.
Il nuovo rubinetto nel frattempo è arrivato, e per quanto Manabu sembri
gradire la chiacchierata, il dovere viene prima di tutto. In un baleno,
porta a termine il lavoro, si «ricompone» e tra mille inchini ringrazia per
l'ospitalità, la pazienza e la chiacchierata. «E non preoccuparti, non
metterò in conto il tempo d'attesa per il rubinetto».
Tra tubi e rubinetti guasti, la giornata tipo di un pronto-intervento nella
capitale giapponese. Che fatica ad arrivare a fine mese e immagina un futuro
denso di nubi. Due lavori, quindici ore di duro lavoro al giorno e un
guadagno totale netto di 2500 euro, appena sufficienti in una delle città
più care del mondo. Lo specchio di un ceto medio che si avvicina alla soglia
di povertà
di Pio d'Emilia su IL MANIFESTO del 21 Novembre da TOKYO
L'occasione è ghiotta. Mentre il mondo ha ormai dimenticato il presunto
idraulico Joe che ha imperversato per buona parte della campagna elettorale
americana, io ho davanti a me un suo collega giapponese. Pura coincidenza. È
un anno e più che il rubinetto del lavello di casa non funziona: acqua calda
a volontà, ma solo un filo di acqua fredda. Risultato: o rischi
l'ustionamento, o i piatti si accumulano.
Direte, un anno per trovare un idraulico? Nossignori. Semplicemente non
l'avevo mai chiamato.
Qualche giorno fa, dopo l'ennesima ustionatura, mi sono deciso. È bastata
una telefonata all'agenzia che mi ha trovato a suo tempo la casa e nel giro
di poche ore è arrivato Manabu, assieme a due colleghi/apprendisti. Inviato
dal Suido Kyukyusha, il centro emergenza idraulica. Un colosso. 3000
richieste di intervento al giorno, tutte evase nel giro di poche ore da un
esercito di precari che attendono a casa o nei rispettivi luoghi di lavoro
una chiamata.
Ma l'azienda, che formalmente è una cooperativa, ha appena 10 dipendenti,
tutti impiegati al centralino. Miracoli della precarizzazione. Cinque mila
yen (40 euro circa) di diritto di chiamata fisso, due mila yen (15 euro)
l'ora, più materiali. Più che ragionevole, visto che siamo a Tokyo. Il
servizio è impeccabile e il bello è che arrivano in due o tre, ma paghi solo
per uno. Buono per il cliente, un po' meno per i lavoratori. Ai quali un po'
meno del 50% del totale fatturato (esclusi i materiali), sul quale devono
anche pagarci le tasse. Ma andiamo con ordine.
Manabu, dopo lo scambio inevitabile dei convenevoli, inchini vari e scambio
di bigliettini da visita sull'uscio, si toglie le scarpe e si mette subito
al lavoro. Ci mette poco a capire che il rubinetto è rotto e non ha nessuna
intenzione, non si usa più, di perdere tempo a smontarlo e ripararlo. E dopo
una breve telefonata alla ditta (dal suo cellulare) per comunicare la
diagnosi manda uno degli apprendisti a prenderne uno nuovo. Il tutto
producendosì in mille scuse per il ritardo, per il fatto di non aver pensato
di portare direttamente un rubinetto nuovo (ma come faceva, nessuno gli
aveva comunicato il modello) e assicurando che non avrebbe messo in conto
l'attesa. E fa per andarsene. Si tratta di aspettare un'oretta e fosse per
lui sarebbe capace di aspettare in piedi, fuori dalla porta, fino all'arrivo
del rubinetto nuovo. Provo a trattenerlo, e sfruttare l'occasione per
decifrare l'affascinante mondo dei tubi e degli impianti sanitari del
Giappone e soprattutto per capire come se la passa, in questo momento
particolarmente drammatico per la seconda economia mondiale.
Alla fine, dopo aver rifiutato nell'ordine birra, vino e persino un tè cede
al fascino dell'espresso, che in Giappone oramai è diventato molto popolare.
Assieme ad altre parole come pizza, cappuccino, balsamico, mozzarella e...
precariato. Già, precariato. Da quando una scrittrice no-global, Karin
Amanomiya l'ha usata in uno dei suoi romanzi di maggior successo
(Ikisaseroo, «lasciateci vivere») e da quando il virtual book italiano
«Generazione mille euro» è diventato un best seller nell'arcipelago
provocando l'invidia dei giovani giapponesi (dove molti «precari» a tempo
pieno guadagnano molto meno di 1000 euro al mese) è diventata una parola
entrata nell'uso quotidiano, come un tempo lo fu la parola proletariato. A
casa ho appunto l'edizione giapponese di «generazione mille euro». Lo metto
provocatoriamente in mostra sul tavolo della cucina e mentre Manabu ed il
suo collega, che resterà muto per tutto il tempo, in segno di deferenza per
il «capo», sorseggiano (in piedi) il caffè, la butto lì. «Beati voi che
avete un lavoro fisso. Oggi è un problema anche in Giappone, con tutti
questi precari, questi poveri che lavorano, e che non arrivano alla fine del
mese». Il sorriso di Manabu dura un attimo. «Beati noi? Tu non hai idea di
come sia dura tirare avanti. E anche io faccio parte di quella categoria che
hai appena menzionato. Precario. Precario a tempo pieno».
Il ghiaccio è rotto. Manabu si siede, subito seguito da Haruo, il suo
silenzioso e forse un po' intimorito collega, e iniziamo una bella
chiacchierata. Manabu ha 51 anni, suo padre, suo nonno e forse anche il
bisnonno erano del mestiere. Erano originari del Tohoku, una regione rurale
a nordovest di Tokyo. «Ricordo con nostalgia la mia infanzia. Vivevamo in
una grande casa, era appena finita la guerra e c'era poco da mangiare. Le
donne coltivavano l'orto e andavano a cercare bacche e verdure selvatiche
nel bosco, gli uomini lavoravano. Appena tornato da scuola seguivo sempre
mio padre, che veniva chiamato dappertutto. Eravamo poveri ma rispettati.
Mio padre era un'autorità nel villaggio».
Beh, anche da noi, in Italia, gli idraulici sono un'autorità - provo a
sdrammatizzare - sono pochi e si fanno pagare. «Dico sul serio - insiste
Manabu, che non ha nessuna voglia di scherzare e comincia e prenderci
gusto - mio nonno, più che un idraulico, era una specie di ingegnere
autodidatta, cominciò a costruire le fogne da prima della guerra, quando non
c'erano nemmeno nelle grandi città. Ricordo che mi raccontava come veniva
osteggiato dai ricconi, preoccupati di perdere una fonte di reddito». Quale?
«Quella per il letame ricavato dalle feci umane. In Giappone i campi si
concimavano, e succede ancora in certe zone rurali, con letame umano. E
quello dei ricchi ovviamente valeva di più, visto che avevano una dieta
migliore Ma con le fogne, questo privilegio è sparito» Però ne restano
tanti, vero, di privilegi? Il divario tra ricchi e poveri sembra essersi
allargato a dismisura negli ultimi anni, dov'è finita la classe media?
«Eccola qui la classe media. Secondo le statistiche, io rappresento la
classe media. Ho un lavoro, anzi due perché questo che faccio per te oggi è
per il Suido Kyukyusha, la cooperativa che gestisce l'emergenza idraulica,
in realtà io lavoro a tempo pieno per la Toto, la più grande azienda di
sanitari del Giappone e forse del mondo. Faccio l'installatore, ho un
contratto a tempo determinato che mi viene rinnovato da 13 anni, un mutuo
iniziato da mio padre e che per fortuna ho quasi finito di pagare, una
moglie che anche lei fa qualche lavoretto e due figli che vanno a scuola
senza problemi. Ce la caviamo, ma lavorando come cani e senza concederci
nulla. E vivo nel terrore di crollare per terra, un giorno, e lasciare la
mia famiglia da sola. Non sopravviverebbero. È un fenomeno molto diffuso in
Giappone, lo sai? Si chiama karoshi».
Lo so. Lo sappiamo. E gli spiego che se cappuccino e precariato sono entrati
nel linguaggio comune giapponese, in Italia anche karoshi (morte da
superlavoro) dopo sushi, kamikaze e harakiri, sono parole conosciute. E gli
chiedo cosa ne pensa dell'aumento vertiginoso dei suicidi (34 mila l'anno,
uno ogni 14 minuti).
Molti giapponesi che non ce la fanno più, che hanno perso il lavoro o
semplicemente sono esausti dall'inutile maratona che sono stati costretti a
correre dal dopoguerra in poi, stipulano un'assicurazione e poi si
suicidano. Sembra un sistema diffuso e tutto sommato accettato dalla
società. Spesso è l'unico modo per garantire alla famiglia un'esistenza
decente. Almeno fino a quando le compagnie assicurative continuano a pagare
anche in caso di suicidio. «È vero, ma ti sembra bello? Uno lavora come uno
schiavo per anni e poi, invece di potersi godere la vecchiaia, deve
attaccarsi a un tubo di scarico per garantire la sopravvivenza ai figli? È
inaccettabile! Io con i tubi ci vivo. Non mi arrenderò mai.Spero solo che il
corpo resista».
Perché sei venuto a Tokyo, perché avete abbandonato la campagna? «Perché mio
padre era diventato davvero bravo e voleva ingrandirsi. È venuto prima lui a
Tokyo, ha fondato una ditta, cominciato ad ottenere i primi appalti,
inchinandosi di qua e smazzettando di là. Poi dopo qualche anno in cui
praticamente lo vedevamo una o due volte, ci ha chiamato. Era felice e
orgoglioso. Però ricordo che eravamo tristi, io e mia sorella. E anche mia
madre. Che infatti non ha resistito, si è presa una brutta malattia ed è
morta. E le cose sono precipitate. Mia sorella era ancora alla scuola
superiore, io avevo appena superato l'esame di ammissione all'università ma
decisi di lasciar perdere per lavorare con mio padre. Ma le cose non
andarono bene, eravamo in piena bolla. Un paio di clienti grossi non
pagarono le fatture e mio padre fu costretto a chiudere.
Ma era bravo e soprattutto umile. Riuscì a farsi assumere dalla Toto, dove
ora lavoro anche io». Quella del famoso washlet, la Ferrari della toilette?
«Proprio così. Una rivoluzione. Oltre metà dei giapponesi, nelle grandi
città, ne possiede uno. Per noi giapponesi l'igiene personale è molto
importante. La toilette è uno dei pochi posti dove ci sentiamo davvero
tranquilli, in una sorta di inviolabile intimità. La gente spende più soldi
per rinnovare la toilette che la cucina». Già. Una bella rivoluzione, dalle
latrine a cielo aperto (tutt'ora presenti in zone rurali), e le alghe e i
bastoncini di bambù che i giapponesi usavano fino agli inizi del secolo
scorso, prima di passare alla carta igienica alla cybertavolette riscaldate,
con spruzzi vari regolabili e persino musichette rilassanti.
Toglimi una curiosità, Manabu-san, ma da dove nasce l'idea di otohime, «la
principessa del suono», la melodia che riproduce il mormorio delle onde?
Manabu si fa una bella risata e spiega: «In Giappone nessuno si meraviglia
se l'uomo emette dei rumori naturali, compresi rutti e flatulenze, sia in
pubblico che in privato. Ma per le donne è diverso. Per loro è estremamente
disdicevole emettere suoni e dunque, quando sono alla toilette, fanno
continuamente scorrere l'acqua per coprire ogni rumore. Di qui l'idea di
produrre una tazza con una musica incorporata che ricorda il suono della
sciacquone, più che il mormorio delle onde, e di chiamarla Otohime, dal nome
dell'omonima principessa, figlia del dio del mare Ryujin. Un successone, ne
avrò installate a migliaia. E ora ci sono i nuovi modelli, ancora più
sofisticati». Tipo? «Il modello Well-You II. Oltre a tutto il resto,
raccoglie ed esamina le urine, misura la pressione. Può essere collegato
wireless al computer di casa e/o a quello dell'ospedale dove sei seguito e
comunica in diretta i tuoi dati al medico. Una manosanta per diabetici e
affetti da altre malattie croniche. Era partito bene, ma costa molto, e ora
stiamo subendo molte cancellazioni e pochissimi nuovi ordini. Con questa
crisi».
Già, torniamo alla crisi. Dicevi che in pratica fai due lavori. Quanto
guadagni, al mese? «Al netto delle tasse, che pago integralmente perché
tutti i lavori che faccio sono tassati alla fonte, al 10%, circa 300 mila
yen al mese (2500 euro circa). Per stare in giro tra tubi, piastrelle e
sanitari anche 15 ore ogni giorno. Mia moglie lavora da casa per un call
center, e porta a casa altri 100 mila yen (700 euro). Per modo di dire
perché se li tiene tutti lei..Dice di metterli da parte per l'emergenza. Ma
ci siamo, nell'emergenza». È vero che molti giapponesi non si fidano delle
banche e tengono i soldi, in contanti, in casa? Una pacchia per i ladri. «È
vero, abbiamo questa vecchia tradizione. Si chiama tansu chokin ("i risparmi
nel comò", n.d.r.) ma in realtà ognuno scegli posti diversi, sotto i tatami,
in uno scomparto segreto del frigorifero, persino nello sciacquone, in una
busta impermeabile. Comunque è una cosa di cui si occupano le donne. E io
non ho davvero idea di dove li metta, mia moglie, i soldi. Altrimenti li
avrei già rubati». Ride di gusto, Manabu. E dopo il caffè accetta un
bicchiere di vino, previo giuramento che non rivelerò mai questa sua
debolezza. Bere sul lavoro, e più in generale prima delle 6 di sera, in
Giappone, è considerato quasi un reato.
Il nuovo rubinetto nel frattempo è arrivato, e per quanto Manabu sembri
gradire la chiacchierata, il dovere viene prima di tutto. In un baleno,
porta a termine il lavoro, si «ricompone» e tra mille inchini ringrazia per
l'ospitalità, la pazienza e la chiacchierata. «E non preoccuparti, non
metterò in conto il tempo d'attesa per il rubinetto».